di: Vincenzo Morena
Scatta il reato di "vendita di prodotti industriali con segni mendaci", previsto dall’art. 517 del Codice penale, per chi immette sul mercato "Wine kit", privi della certificazione sulla provenienza degli ingredienti, ma confezionati in modo tale da farne presumere l'origine italiana. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 9357, pubblicata lo scorso 9 marzo.
I Giudici di Piazza Cavour hanno, così, respinto il ricorso di un imprenditore italiano che produceva, per il mercato canadese, c.d. “Wine kit”, confezioni di mosto in polvere che “promettono” di ottenere vino in casa semplicemente aggiungendo acqua e con una spesa minima. Nello specifico, all’imputato veniva contestato di aver falsificato, sulla confezione, le indicazioni di vini italiani a denominazione di origine protetta (DOP), le effigi del tricolore italiano e del Colosseo, così da ingenerare negli acquirenti la convinzione che si trattava di bevanda “fai da te” a base di mosto italiano.
Secondo la difesa, la Corte di Appello aveva erroneamente ritenuto provato che l’elemento base della bevanda (il mosto) non fosse di origine italica, mancando la prova, e che, poiché la Camera di commercio italiana in Quebec prevede un dossier ad hoc per la commercializzazione di vini ed alcolici e nulla prescrive riguardo al mosto, sarebbe stata l’accusa a dover provare la reale origine del prodotto. Inoltre, ad avviso del ricorrente, la Corte territoriale aveva sbagliato nel ritenere che i nomi riportati sulle etichette contenute all’interno del kit fossero idonee a trarre in inganno l’acquirente sull’origine e sulla provenienza dei mosti, “considerando che le uniche indicazioni che richiamavano i prodotti nella scatola non riguardavano il mosto, ma erano costituite da etichette da applicare alle confezioni del prodotto realizzato a cura dell’acquirente”.
Argomentazioni, tutte, prontamente respinte dagli Ermellini, secondo i quali il Giudice di secondo grado aveva (giustamente) desunto la prova che i mosti utilizzati per creare il kit non provenissero da vitigni italiani sulla base di una pluralità di elementi gravemente indiziari, e che il dossier della Camera di commercio italiana non aveva alcuna rilevanza in merito all’inversione dell’onera della prova, vista la sua natura di documento “a mero contenuto divulgativo”.
Infine, in relazione all’ulteriore eccezione sollevata, per la Suprema Corte non vi sono dubbi che le etichette applicate sul prodotto evocano un'inesistente origine italiana ed una altrettanto inesistente provenienza da mosti di vini DOC.
I Giudici di Piazza Cavour hanno, così, respinto il ricorso di un imprenditore italiano che produceva, per il mercato canadese, c.d. “Wine kit”, confezioni di mosto in polvere che “promettono” di ottenere vino in casa semplicemente aggiungendo acqua e con una spesa minima. Nello specifico, all’imputato veniva contestato di aver falsificato, sulla confezione, le indicazioni di vini italiani a denominazione di origine protetta (DOP), le effigi del tricolore italiano e del Colosseo, così da ingenerare negli acquirenti la convinzione che si trattava di bevanda “fai da te” a base di mosto italiano.
Secondo la difesa, la Corte di Appello aveva erroneamente ritenuto provato che l’elemento base della bevanda (il mosto) non fosse di origine italica, mancando la prova, e che, poiché la Camera di commercio italiana in Quebec prevede un dossier ad hoc per la commercializzazione di vini ed alcolici e nulla prescrive riguardo al mosto, sarebbe stata l’accusa a dover provare la reale origine del prodotto. Inoltre, ad avviso del ricorrente, la Corte territoriale aveva sbagliato nel ritenere che i nomi riportati sulle etichette contenute all’interno del kit fossero idonee a trarre in inganno l’acquirente sull’origine e sulla provenienza dei mosti, “considerando che le uniche indicazioni che richiamavano i prodotti nella scatola non riguardavano il mosto, ma erano costituite da etichette da applicare alle confezioni del prodotto realizzato a cura dell’acquirente”.
Argomentazioni, tutte, prontamente respinte dagli Ermellini, secondo i quali il Giudice di secondo grado aveva (giustamente) desunto la prova che i mosti utilizzati per creare il kit non provenissero da vitigni italiani sulla base di una pluralità di elementi gravemente indiziari, e che il dossier della Camera di commercio italiana non aveva alcuna rilevanza in merito all’inversione dell’onera della prova, vista la sua natura di documento “a mero contenuto divulgativo”.
Infine, in relazione all’ulteriore eccezione sollevata, per la Suprema Corte non vi sono dubbi che le etichette applicate sul prodotto evocano un'inesistente origine italiana ed una altrettanto inesistente provenienza da mosti di vini DOC.