Nel caso in esame, un’impresa estrattiva aveva portato presso il luogo nel quale era autorizzata a depositare i rifiuti provenienti da una cava anche quelli, della medesima natura, derivanti dal taglio di ardesia estratta da un’altra cava.
La tesi difensiva faceva leva sul principio enunciato espressamente dall’articolo 185 comma 2 lett. d) del TUA che così recita:
“Sono esclusi dall'ambito di applicazione della parte quarta del presente decreto, in quanto regolati da altre disposizioni normative comunitarie, ivi incluse le rispettive norme nazionali di recepimento:
d) i rifiuti risultanti dalla prospezione, dall'estrazione, dal trattamento, dall'ammasso di risorse minerali o dallo sfruttamento delle cave, di cui al decreto legislativo 30 maggio 2008, n. 117”
Pertanto, si è sostenuto che l’ardesia rinvenuta nel sito del deposito non potesse considerarsi “rifiuto” ai sensi del TUA, con la conseguenza che il reato presupposto (quello previsto dall’articolo 256 TUA) non può essere integrato.
la Corte di Cassazione ha precisato che l’esenzione dalla regolamentazione del testo unico ambientale vale esclusivamente per i rifiuti che derivano direttamente dal ciclo produttivo dell’attività estrattive e connessa pulitura, ma non dalle altre attività. Una volta estratta dalla cava, dunque, i residui della lavorazione dell’ardesia, ancorché compiuta nel luogo di autorizzazione al deposito, sono da considerarsi a tutti gli effetti “rifiuti” e rientranti come tali nell’ambito della disciplina del titolo IV del TUA.
La cassazione stringe le maglie sulla gestione dei rifiuti provenienti da attività estrattive.
7 giugno2024
di: Avvocato Daniele Zaniolo
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